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ORIGIN BLOCCATO IN BIRMANIA: I RISCHI DELLA DISTRIBUZIONE ONLINE

ORIGIN BLOCCATO IN BIRMANIA: I RISCHI DELLA DISTRIBUZIONE ONLINE

A partire da un post su reddit di oggi, è stata resa nota al mondo la decisione di EA di bloccare un intero Stato dall’accesso ad Origin.

La Birmania, che già non godeva di ottime relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti, ha comunque migliorato la sua situazione negli ultimi tempi, tanto che Obama il 7 ottobre ha deciso di eliminare le sanzioni commerciali ad essa inflitte.

Nulla di ciò sembra essere interessato ad Electronic Arts. Da questa mattina, chiunque in quella zona del mondo accenda Origin si trova davanti un messaggio di errore che spiega specificamente che il servizio non è più disponibile. Il problema qui è che taluni utenti, tra cui il principale divulgatore della notizia su reddit, hanno speso anche centinaia di euro nel corso del tempo per acquistare giochi dalla piattaforma: giochi a cui ora essi non possono più accedere. Va da sè comunque che il problema si porrebbe ugualmente anche se le somme contestate fossero irrisorie.


Per cosa si spendono dunque i soldi oggi, nell’epoca della distribuzione digitale? È effettivamente un prodotto completo quello che viene venduto all’acquirente oppure non è altro che una sorta di titolo di fare, una promessa che il publisher fa di inviare i byte del gioco a chi lo compra? E fino a che punto questa promessa può essere limitata nel corso del tempo?

Va subito chiarito che in Europa e in Italia le leggi riguardanti la compravendita, anche se solo ultimamente hanno iniziato a trattare esplicitamente la Digital Distribution, sono comunque sufficientemente complete da non permettere che una simile situazione si verifichi, soprattutto su scale nazionali.

Tutt’altra questione, però, è il rapporto che intercorre privatamente tra il compratore ed Electronic Arts, Ubisoft, Valve o qualsiasi altro publisher che distribuisce dietro una piattaforma i propri prodotti. Si supponga che una di queste case voglia vietare l’accesso di un privato cittadino ai suoi server per i più disparati motivi, trovandone ragione in qualche sottigliezza dell’EULA o di simili contratti che spesso vengono accettati senza badare al contenuto: a questo punto è ben più difficile che si verifichino meccanismi giudiziari che portano infine a dare ragione al cliente. Immaginare di intraprendere, da soli, una lotta legale contro un gigante come EA è sufficientemente disincentivante.

Di tutto questo bisogna tenere conto nella nostra epoca, in cui sempre meno si compra un gioco fisico e “scatolato”, con un DVD contenente tutto quello che serve al funzionamento del gioco e lo si installa sul computer. “Dove sono i miei dati?” verrebbe da chiedersi, quando invece del DVD non c’è altro che una stringa, una CD-Key che ci dimostra possessori di un certo software che però non possediamo fisicamente: esso rimane sui server di chi ce lo vende, e solo in seguito alcuni selezionati byte di esso vengono trasferiti sui nostri hard disk.

Se per impedirci di giocare una volta doveva arrivare la Polizia di Stato a casa e sequestrare fisicamente software e hardware, oggi un’impresa privata (e non la forza di sicurezza pubblica!) può premere un pulsante e punire l’utente, o gli utenti, a distanza di chilometri senza battere ciglio, praticamente certa che egli non reagirà, giustificandosi legalmente dietro clausole contrattuali (come l’EULA) che nessuno legge e che possono essere modificate dalla stessa impresa privata a piacimento, esponendo il contraente debole, cioè noi, ad accettare clausole che con ogni probabilità sarebbero definite vessatorie nel codice civile.

 

 

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